Treviso di notti deserte: un anno di Covid, di dolore e di lutti

Dodici mesi di prima linea, alle prese con un nemico invisibile. Una comunità di 900 mila persone che improvvisamente si è scoperta fragile e incerta, minata nella sua fondamenta di mobilità, aggregazione, relazione

TREVISO. Un anno di dolore e di lutto, perché 1.500 morti sono una strage degli innocenti, come lo fu il bombardamento del 7 aprile’44, che non fece meno vittime. Mogli e mariti, nonne e nonni, ma anche figli e figlie, parenti e amici strappati ai loro affetti, senza nemmeno avere le possibilità di un saluto, di un congedo, anche solo di una carezza o del semplice tenersi per mano.

Un anno di angoscia, per la sorte dei malati nelle corsie di ospedale e degli anziani nelle case di riposo, diventati inaccessibili.

Un anno di paura, di mille paure, quella del contagio in una quotidianità improvvisamente sconvolta, fra scuole chiuse, smart working, casse integrazioni e contratti non rinnovati.

Un anno di nuovi eroi, silenziosi e lontani dai riflettori: medici, infermieri, oss e operatori fino all’ultimo portantino, in quelle trincee che sono ospedali e Rsa.

Un anno stravolto, dai lockdown totali e parziali, dai servizi contingentati, dai coprifuochi tornati all’improvviso nella vita di ogni giorno, 80 anni dopo la seconda guerra mondiale.

Un anno di resistenza, in trincea, per non cadere. Da quel 25 febbraio in cui la nostra provincia sotto choc registrò la prima vittima del virus – Luciana Mangiò, docente in pensione, ospite di una casa di riposo. E scoprì, anche, di avere il maxi focolaio nel luogo in teoria più sicuro, l’ospedale Ca’ Foncello: reparto Geriatria, quello con i degenti più fragili.

Dodici mesi di prima linea, alle prese con un nemico invisibile. Una comunità di 900 mila persone che improvvisamente si è scoperta fragile e incerta, minata nella sua fondamenta di mobilità, aggregazione, relazione.

Anche in quell’economia modello per il mondo, da allora in resistenza strenua, persino sul piano dell’occupazione. Ma che ora si trova a temere, dopo aver bruciato miliardi di mancati introiti, e anche riserve ed energie, una primavera cruciale. Sapendo già che turismo, mobilità, servizi alle persone sono in ginocchio e non si riavranno presto. Che il settore dell’Horeca, trainato da Sua Maestà Prosecco, annaspa. Che l’aeroporto Canova, simbolo della nuova vocazione turistica della Marca – incoronata backyard incantato di Venezia, città d’arte e slowfood – attende di riaprire, ma sa già che tornare al primato di 3,3 milioni di passeggeri sarà lunga.

La prima sfida è riaprire in aprile, sperando in un’estate che possa far rinascere la voglia di muoversi. Per ora, il boom seguito alle grandi mostre di Goldin, tornato a 20 anni dal primo grande ciclo di fine secolo scorso, l’adunata record degli alpini del 2017, persino la laurea dell’Unesco ai colli del Prosecco nuovissimo patrimonio dell’umanità, sono lontanissimi: tutto è svanito, nell’annus horribilis. Scomparsi i turisti, con i loro trolley sui pavé di Treviso, i pullman stranieri e non parcheggiati fuori mura, i mille fan di ciclismo e di rugby.

Deserti gli appartamenti del centro, nuove foresterie per turisti, in una Treviso sestiere aggiunto di Venezia, gioiellino di pietre e acqua cantato dalla grande stampa internazionale fra canali, mulini, affreschi, dolci, street food, prelibatezze.
Il Sile, e il Piave scorrono in una provincia più silenziosa. Tacciono, per il secondo anno, i carri e le mascherine. Sono spettrali la sera piazze e portici, canali e vicoli, i luoghi dell’aperitivo. Serrande chiuse per osterie e trattorie, come per i ristoranti, templi della convivialità trevigiana, lo stare insieme che si esalta fra ciacoe, ombre, e cicheti, o le specialità della tradizione. Di qua e di là del Piave, in pianura come in collina.
Sono saltate come tappi di Prosecco, un mese dopo l’altro, le feste, le sagre, le manifestazioni con una vena di goliardia e di sana follia, dal Sile alle frasche nelle zone del vino. Non è più tempo, a prescindere dalle norme sulle mascherine e le distanze. Non è nemmeno finita. Sì, il 2021 ha portato i vaccini, ma anche le temibili varianti. E pochissime certezze: bisogna tener duro, ancora.